TEATRO RISTORI. «Zang Tumb Tumb» è una rievocazione
Bravo Floreani a scovare brani inediti negli archivi
Prima Federico Martinelli dell’associazione Quinta Parete e poi l’artista Roberto Floreani spiegano alla nutrita platea del teatro Ristori le fortunate coincidenze e i motivi di una serata futurista a Verona. Date, ricorrenze: forse anche quella sottovalutata del 4 novembre, tragico ricordo di una guerra che Boccioni e soci invocavano come svolta, dinamismo e rottura col passato, qui è sfondo spinoso dello Zang Tumb Tumb ideato dallo stesso Floreani. Di rievocazione si tratta, va detto, altrimenti, manifesti alla mano, dovremmo giudicare l’operazione come poco dinamica, poco simultanea e assai poco responsabile di quella «eccitazione sensoriale polifonica» che invadeva come onda d’urto il teatro dei Piccoli a fianco della basilica romana di Santa Maria Maggiore. Dissimmetrie, dissonanze, astrazioni geometriche: così si leggeva nel manifesto di Prampolini e in quello di Russolo che predicavano scenografie plastiche e luci che traducessero la soggettività dell’attore in «rivelazioni dell’invisibile». Luci che sostituiscono l’attore, non che ne fanno colonna sonora didascalica.
Là si guardava al circo e al cabaret per abolire la ribalta e trasformare il riso in corrosione. Qui si conserva la cen- tralità della scena frontale alla platea. Là i contrasti assorbivano tempi morti del palcoscenico e l’inerzia della scaletta, qui invece rispettata nella sua scansione pre-descritta agli spettatori. Splendore meccanico, cinetismo, sorpresa e teatro come luogo del possibile. Abolizione della ribalta, cen- tralità dello spettatore coinvolto dallo scatenamento di energie psicofisiche.
Al Ristori si è comodamente seduti sotto una pioggia finale di volantini, si ascoltano le declamazioni di Floreani stesso, l’energico Michele Vigilante e il sognante Sergio Bonometti che riporta spezzoni di un precedente lavoro sul futurismo, quel Sognavamo di vivere l’assoluto dedicato a Verossì. La musica è disseminata e affidata a tre giovani (gioia e vanto di Marinetti) e al pianoforte di Roberto Jonata che dovrebbe romperlo per produrre distonie e fragori meccanici imprevedibili quanto beceri.
Contenuti più che tecnica dunque, testi più che una forma forse ormai irrappresentabile. Ci sono interessanti brani inediti scovati da Floreani negli archivi, l’effetto eroico e onomatopeico del recitato, ma nessun scalpitio dei cavalli e gli spari della mitraglia nell’odore di polvere. La danza di Giannina Censi è nel corpo di Miriam Peraro, la sua aereodanza ha la nostalgia di un’avanguardia che cercava l’assoluto nella materia e nello spazio. Cercava di forzare la realtà intuendo ciò che Cage prima e Fontana poi riusciranno in parte a tradurre con i rumori liberi e lo spazio infinito. Un’utopia disillusa, come tante dopo la proclamata morte dell’arte con cui anche una «rievocazione» deve fare i conti, almeno per non trasformare quel vuoto post-moderno in nostalgia.
di Simone Azzoni